Il prezzo dei prodotti energetici, in special modo quello del gas, ha subito, a partire dal settembre 2022, un deciso calo (che, da gennaio ad oggi potremmo quasi definire “crollo”, con il prezzo del megawattora piombato, allo snodo di Amsterdam, a € 38, equivalente a circa il 90% in meno rispetto ai massimi dell’agosto 2022, quando arrivò a toccare, intra-day, circa € 350). Un po’ diverso, per quanto anch’esso in diminuzione, l’andamento del petrolio, più sensibile al ciclo economico (mentre, come noto, il gas risente maggiormente di situazioni geopolitiche e climatiche).
Eppure, nonostante l’evidenza (che trova conferma nella riduzione delle bollette energetiche), l’Istat ci dice che, ad aprile, l’inflazione, nel nostro Paese, è tornata a “rialzare” la testa, passando all’8,3% dal precedente 7,6% fatto registrare a marzo. Stabile, invece, quella “core”, al netto dei prezzi energetici e di quelli alimentari, ferma al 6,3%.
In realtà, infatti, il prezzo dei prodotti energetici ha avuto un calo dello 0,8%; la causa va ricercata in un “effetto base” sfavorevole: l’anno scorso, nello stesso mese di aprile, il calo “congiunturale” fu del 5,8%. A contribuire al rialzo dei prezzi anche la reintroduzione degli oneri di sistema.
Peraltro, anche se in misura minore, il problema tocca un po’ tutta l’Europa, con i prezzi, secondo una stima preventiva di Eurostat, risaliti al 7% dal 6,9% di marzo. E’ leggermente scesa, invece, l’inflazione core, passata dal 5,7% di marzo al 5,6% di aprile. Statistiche che assumono una certa rilevanza essendo in calendario, per la giornata di domani, la riunione del Comitato esecutivo della BCE, che sarà chiamato a decidere su un nuovo, eventuale, ritocco dei tassi. Si fa largo l’ipotesi di un rialzo dello 0,25%, che avvicinerebbe i tassi europei al 3,75%, ritenuto da molti il “livello terminale”.
Decisione analoga dovrebbe essere confermata, nella giornata odierna, negli USA, dalla FED: un aumento dello 0,25% è dato per scontato, portando i tassi americani nel “range” 5%-5,25%.
Indubbiamente, per Biden il momento è delicato. Al di là delle perplessità sulla sua ricandidatura alle Presidenziali della fine del prossimo anno, legate all’età non certo giovanile (a novembre 2024, quando si terranno le elezioni, compirà 82 anni), per rimanere in ambito economico-finanziario 2 sono gli argomenti da tenere in considerazione.
Il primo è il “rischio default” degli Stati Uniti. In base alla giurisdizione attuale, non può essere sforato il tetto di $ 31.400 MD di debito pubblico, un livello, di fatto, già raggiunto, reso possibile grazie agli “artifizi contabili”, per dirla in maniera molto sintetica, del sottosegretario al Tesoro Janet Yellen. Le trattative in corso tra i democratici e i repubblicani, che si dividono il Congresso, sono iniziate, con un nuovo incontro fissato per il 9 maggio. Certo è che, se non si trovasse un accordo, la paralisi che ne seguirebbe, con il Paese “bloccato” vista l’impossibilità di spendere da parte dell’Amministrazione, non farebbe che rendere ancora più difficile contrastare l’indebolimento del ciclo economico che da più parti viene segnalato. Questo l’altro punto che preoccupa non solo l’attuale Presidente, ma un po’ tutti: l’arrivo della recessione, infatti, metterebbe a serio rischio la sua rielezione, viste le conseguenze che ne deriverebbero. Qualche segnale in questo senso sta arrivando, a partire dal calo dei posti di lavoro disponibili: se fino ad un paio di mesi fa sfioravano i 10 ML (i pratica 2 per ogni lavoratore in cerca di lavoro), oggi si sono ridotti a poco più 9,5ML. Che sono sempre un numero di tutto rispetto, ma che evidenzia come le prospettive si stiano facendo un po’ più cupe. Non a caso, tra gli economisti, coloro che prevedono che la recessione, a livello globale, sia un evento ineluttabile e coloro che, invece, pensano che “riusciremo a schivarla” è esattamente lo stesso (45%), con una grande maggioranza, però, che vedo una crescita piuttosto debole per l’Europa. Maggiore ottimismo, invece, per quanto riguarda gli USA, con il 44% che ritiene che l’economia crescerà, per quanto in maniera moderata, mentre il 6% ritiene che la crescita sarà ben più sostenuta.
La giornata di ieri, a Wall Street, è stata ancora contrassegnata dalla debolezza del settore bancario, con diverse piccole-medie banche regionali che hanno fatto registrare perdite tra il 10 e il 20%. La preoccupazione, infatti, che vi siano altre “First Republic” sparse qua e là e che, quindi, il lavoro della FED lungo la strada del risanamento del settore non sia ancora finito. Le chiusure americane hanno quindi fatto registrare un calo che va dall’1,08% per il Dow Jones al – 0,89% per il Nasdaq.
Questa mattina gran parte dei mercati asiatici sono chiusi per festività (Tokyo, Shanghai, Shenzen): aperto, invece, Hong Kong, dove l’Hang Seng cede l’1,48%.
Futures positivi un po’ ovunque, con l’Eurostoxx che fa segnare, nelle prime contrattazioni, + 0,66%.
Ieri forte caduta del petrolio, sulle prospettive di un ciclo economico debole: il WTI è sceso di oltre il 5%, arrivando verso i $ 71 (71,75, stabile questa mattina).
Gas naturale Usa a $ 2,236, + 0,81%.
Oro a $ 2.027, in crescita anche questa mattina (+ 0,11%).
Spread sempre in area 189 bp, con il BTP a 4,16%.
Treasury Usa a 3,43%, sui livelli di ieri.
€/$ a 1.1021.
In ripresa il Bitcoin, che, per quanto questa mattina sia appena debole (– 0.19%), ieri è tornato saldamente sopra i $ 28.000 (28.624).
Ps: perché il sistema previdenziale italiano possa reggere, il rapporto tra lavoratori e pensionati dovrebbe essere pari ad almeno 3 lavoratori ogni 2 pensionati (1.5 lavoratori ogni pensionato, per dirla in modo ancora più chiaro). Oggi siamo a 1,4, ma le stime ci dicono che nel 2050 il rapporto sarà di 1 a 1. Ma ad Asti il 2050 è già arrivato: infatti, nella provincia piemontese, a fine 2022, il numero di coloro che lavorano e di quelli che percepiscono una pensione è pressochè identico: 89.000 quelli che hanno un’occupazione, 88.000 quelli che ricevono la pensione. Un primato che forse sarebbe meglio non avere.